Tra 2025 e 2026 l’Italia avrà una vera e propria prova del fuoco sul debito pubblico. I dati consultati dal Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze ricordano, con aggiornamento al 30 novembre scorso, che nel prossimo biennio quasi il 22% dei Buoni del Tesoro Poliennali (Btp) andrà a scadenza. E tutto questo in una fase dove si sommeranno attivamente il ritorno in vigore dell’austerità europea, gli scenari recessivi sul piano industriale su scala globale, una possibile tensione commerciale globale e un dubbio sui futuri movimenti del mercato monetario. A cui aggiungere la fine del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Su circa 2.960 miliardi di euro di debito pubblico, 643, oltre il 21,5%, scadranno tra il prossimo anno e quello successivo.
356 miliardi di euro di emissioni in scadenza nel 2025, 234 dei quali a medio-lungo termine, e 287 nel 2026 imporranno grande attenzione. Buona parte di queste passività sono quelle ereditate dall’epoca pandemica del Covid-19, quando il Patto di Stabilità europeo era sospeso e non c’era sostanzialmente limite al margine di manovra a disposizione degli attori europei. Ebbene, ora più che mai giunge importante il monito che, nel 2020, faceva Mario Draghi: ci sarebbe stato debito buono e debito cattivo. Il primo crea crescita strutturale, il secondo avrebbe generato sul lungo periodo distorsioni e sperequazioni. Non c’è dubbio che buona parte di quello generato in Italia sia andato nel secondo fronte, tra bonus edilizi a pioggia che hanno creato voragini debitorie e ridotti ragionamenti su un’agenda comune per l’industria, le infrastrutture, l’energia e via dicendo. Tutto delegato al Pnrr, che finirà però nel 2026. Ora più che mai le lezioni di ieri devono essere da ammonimento per domani: i decisori dovranno sempre di più puntare al debito “buono”. Meno passività, utilizzate meglio, dirette a creare benessere diffuso, dando alle vive forze di mercato la possibilità di sdoganarsi. Annullare il debito pubblico è impossibile e in un certo senso non auspicabile. Razionalizzarlo, compattarlo e indirizzarlo alla crescita è possibile: si guardino casi come quello spagnolo e portoghese degli ultimi anni. L’alternativa è finire travolti dalle contingenze negative che già oggi vive la Francia, “malato d’Europa”, in crisi politica, economica e sociale anche per la difficoltà nella gestione del debito-monstre. O, peggio, trovarsi sotto il fuoco della speculazione internazionale. Ormai il principio dell’uso politico della valuta e dei debiti è sdoganato. Qualche nome aiuta come monito. Negli Stati Uniti Donald Trump ha nominato Segretario al Tesoro Scott Bessent, finanziere associato storicamente allo speculatore George Soros, che nel settembre 1992 guadagnò un miliardo di dollari in un giorno speculando contro lira e sterlina inglese fiaccate dall’instabilità dei Paesi cui facevano riferimento. Il ritorno in auge di certe figure mostra come ovunque ci si stia preparando a un’epoca in cui le risorse finanziarie statali saranno “militarizzate” in un clima di competizione economica. E l’Italia, Paese dell’industria e del risparmio, non può permettersi di replicare la mala gestio del suo debito a lungo. Pena il rischio di una crescente vulnerabilità di sistema. E dalla capacità di rinegoziare favorevolmente la massa di debito in scadenza nel prossimo biennio si capirà una grossa fetta del futuro del sistema-Paese.