Il mandato d’arresto contro Benjamin Netanyahu da parte della Corte Penale Internazionale ha fatto ampiamente discutere l’opinione pubblica occidentale, divisa tra chi ritiene una forma di giustizia internazionale per il conflitto a Gaza il paragone che la CPI ha di fatto creato tra Netanyahu e Vladimir Putin e chi avalla la tesi di Tel Aviv circa la possibilità di un pregiudizio antisraeliano della Corte.

Tale divisione ha raggiunto anche i governi occidentali. In ogni caso, è altamente improbabile che Netanyahu venga, in futuro, arrestato. Ma non per questo bisogna sottovalutare il peso politico della sentenza emessa su iniziativa del procuratore Karim Khan.

In primo luogo, si è notato su Sky Insider, “la spada di Damocle del mandato della Cpi restringerà notevolmente il perimetro di Paesi entro cui il premier israeliano potrà viaggiare senza incorrere nel rischio di arresto. Ogni Paese firmatario dello Statuto di Roma è infatti chiamato ad arrestare un ricercato internazionale quando transita sul suo territorio”.

Inoltre, come nota il quotidiano israeliano Haaretz, Netanyahu è stato difeso dagli Usa, che non sono firmatari del trattato che istituisce la Cpi. Gli Usa continuano a fornire armi e sostegno allo Stato Ebraico, ma politicamente la loro opinione pubblica è fortemente orientata in senso critico al sostegno a Tel Aviv in termini militari, e Haaretz nota che l’escalation di critiche verso Netanyahu può mettere a repentaglio le forniture militari necessarie alla guerra a Gaza. Il progetto “Costs of War” della Brown University parla di 18 miliardi di dollari di aiuti militari a Israele da parte degli Usa dal 7 ottobre 2023 in avanti. Sarà ancora possibile un tale appoggio dopo il pronunciamento della Cpi? Difficile dirlo. Ma ignorare il mandato d’arresto potrebbe essere politicamente dannoso per il divisivo leader israeliano.