Mentre la guerra in Medio Oriente si allarga, l’anniversario dei massacri del 7 ottobre è stato doppiato e Israele è tatticamente all’attacco su ogni fronte, tre sono i grandi dilemmi con cui lo Stato Ebraico si confronta, condizionando tutta la regione e gli stakeholder internazionali: fin dove si spingerà Israele? In che misura la sicurezza dello Stato è garantita per davvero dall’escalation e dalle sue conseguenze? E come ciò impatta sulla società interna?

Comprendere la risposta a queste domande è vitale per capire il futuro del Medio Oriente. I primi due punti sono il tentativo di capire se la scommessa di Benjamin Netanyahu si rivelerà vincente: il primo ministro ha fatto ben presente di ritenere che la miglior difesa sia l’attacco, pensando a mosse risolutive su Gaza, contro Hezbollah in Libano, in Siria e, in prospettiva, contro l’Iran. Aggiungendo a ciò la volontà di passare sopra ogni forma di diritto internazionale, come dimostrato dai bombardamenti di avvertimento contro la missione Unifil in Libano.

I critici ricordano che anche la migliore delle tattiche senza una strategia di fondo è fallace. E al contempo il dato forse più importante è il terzo punto. Per decenni Israele ha retto alle sfide esterne in nome di una compattezza che oggi lo shock del 7 ottobre e la deriva etno-nazionalista della società sembrano aver minato. Di recente l’Israel Democracy Institute ha promosso un sondaggio d’opinione sulla cittadinanza dello Stato Ebraico segnalando una certa stanchezza da guerra. Gli israeliani “credono sempre di più che i combattimenti nella Striscia abbiano fatto il loro corso e che l’obiettivo principale di Israele lì dovrebbe essere il ritorno sicuro dei 101 ostaggi tenuti prigionieri da Hamas”, ha scritto il Times of Israel. Molti, riporta la testata, “hanno espresso insoddisfazione per il modo in cui Netanyahu e altri leader politici hanno gestito il conflitto, ma hanno dato ai leader militari voti leggermente più alti”. Notevole sottolineare che “alla domanda se sia giunto il momento di porre fine alla guerra a Gaza, il 53 percento degli intervistati ha risposto di sì mentre il 36% ha risposto di no. Il sondaggio ha rilevato che gli arabi israeliani sono in larga maggioranza favorevoli a porre fine alla guerra, mentre gli intervistati ebrei erano divisi tra l’interruzione dei combattimenti e l’andare avanti, rispettivamente dal 45% al ​​43%”.

Il più conservatore Jerusalem Post nota un altro dato: la guerra aumenta l’emigrazione dal Paese. Lo Stato Ebraico ha fatto dal 1948 a oggi della sua compattezza il punto di forza. Ora il trend sembra essersi evoluto. “Nel 2023, circa 55.400 persone hanno lasciato il Paese, segnando un forte aumento rispetto alla media annuale di 37.100 del decennio precedente”, ha sottolineato il Jerusalem Post. “Una parte considerevole di coloro che partono sono giovani adulti tra i 20 e i 30 anni, che costituiscono circa il 40% degli emigranti pur rappresentando solo il 27% della popolazione”, ha aggiunto la testata. Sempre più persone sono stanche di vivere nello Stato della leva militare di massa e dell’etno-nazionalismo. Un dato da sottolineare per dimostrare la stanchezza da guerra che serpeggia a Tel-Aviv.