Molte materie prime stanno conoscendo una crescita di prezzo sensibile. Pensiamo al prezzo del rame, prossimo a superare la soglia di 12mila dollari a tonnellata, o a quello dell’oro, giunto oltre i 3mila dollari all’oncia. Vola anche l’argento, +36% da inizio anno, ed è cresciuto anche l’acciaio della categoria HRC (+25,5% dall’1 gennaio).
L’effetto ritenuto più impattante è quello dei nuovi dazi statunitensi e delle crescenti tensioni commerciali tra grandi potenze, e il ruolo delle barriere tariffarie in via di consolidamento è sicuramente degno di nota e da tenere in considerazione. Ma al contempo non si può non sottolineare il peso giocato dalle rivalità strategiche e geopolitiche nel dettare il ritmo alla crescita di molti valori. Alcuni esempi? L’acciaio è, assieme all’alluminio, al centro di una nuova strategia di sicurezza nazionale americana che chiede più produzione finalizzata a garantire forniture all’industria militare. Il rame è attratto dal nuovo piano di stimolo economico con cui la Cina sta spingendo la sua economia e mira a competere sul fronte tecnologico e infrastrutturale con la superpotenza americana. Il gas naturale corre sulla scia delle rinnovate tensioni tra Europa e Russia. E l’oro? Non è altro che il “termometro” di un mondo pericoloso e teso.
Tornano i beni rifugio, torna la spinta a tesaurizzare asset contro ogni evenienza e a fare della corsa al rafforzamento delle scorte di materie prime critiche per garanzia contro ogni situazione di crisi o uso “militarizzato” (weaponization) di un bene da parte di un Paese contro l’altro. I dazi sono una conseguenza, non una causa di questa dinamica. Al centro di tutto c’è la spinta al primato della sicurezza nazionale sull’economia che inficia ogni dinamica competitiva. Non si può parlare di mercato senza parlare, preventivamente, di grandi scenari geopolitici. Agli operatori l’onere di reagire, l’onore di aver creato una nuova normalità se sapranno prendervi le misure.