In Italia fa discutere da diverse settimane il caso di Almasri, l’alto funzionario della polizia libica ricercato dalla Corte Penale Internazionale che è stato brevemente arrestato durante un suo passaggio in Italia per poi venire scarcerato e riprendere la via del Paese nordafricano a metà gennaio. In questa sede non importa giudicare il caso giudiziario aperto dall’iscrizione nel registro degli indagati della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi per la decisione di rispedire Almasri, accusato di aver coperto omicidi, torture e stupri compiuti dai suoi uomini nella prigione di Mitiga dove vengono detenuti anche i migranti irregolari fermati sul suolo libico, in patria.

Importa, analizzando gli scenari internazionali, capire quanto sia problematica la posizione del nostro Paese in Libia, pre-carré africano dell’Italia, per spiegare come il tema non sia il singolo caso Almasri, ma il modello che porta a delegare a queste figure discutibili la proiezione politica dell’Italia. Di fatto a Tripoli il governo internazionalmente riconosciuto di cui Almasri è funzionario è egemonizzato da attori come Turchia e Qatar, che dettano legge e controllano le principali milizie. In nome di questo asse le autorità libiche aprono e chiudono i flussi migratori rivolti verso l’Italia, condizionano gli appalti economici, distribuiscono l’influenza politica.

L’Italia, in seconda fila, non può permettersi di alienarsi questi scomodi alleati, che dalla Siria alla Libia hanno costruito un’ampia proiezione sfruttando la leva dell’islamismo politico e una sinergia chiara: Doha mette i soldi e l’ideologia, Ankara le armi, l’intelligence e l’organizzazione strategica. Parliamo della Libia, ma sarebbe meglio parlare delle Libie,

perché a Tobruk c’è tutto un altro Paese, governato dalle milizie ribelli di Khalifa Haftar e sostenute dagli Emirati Arabi Uniti e, soprattutto, dalla Russia, che vi sta dispiegando assetti militari dopo la fine di Bashar al-Assad in Siria. Il caso Almasri si ripeterà finché continueremo a decidere di appaltare ad altri la sicurezza di un Paese che dovrebbe essere al centro della strategia di sicurezza nazionale italiana. Altrimenti, dovremo essere costretti altre volte ad ammettere la realtà: e cioè che nel pacchetto di dipendenza da terzi, in Libia, c’è anche compresa l’incolumità per i tagliagole utili ai nostri alleati di turno. Può una grande democrazia del G7 permettersi ciò?