Le dichiarazioni di Donald Trump riguardo Panama, Groenlandia e Canada non sono frutto di impulsi casuali o dell’estro eccentrico di un leader poco incline alla diplomazia. Esse affondano le radici in una lunga tradizione americana di affermazione geopolitica, incarnata storicamente dalla Dottrina Monroe. Come ricorda il Carnegie Endowement for International Peace, da quando è stata proclamata nel 1823, questa dottrina stabilì un principio fondamentale: l’emisfero occidentale sarebbe stato chiuso a qualsiasi ingerenza europea. In origine, fu concepita come uno strumento per respingere i tentativi coloniali delle potenze europee in America Latina, ma con il tempo si trasformò in una giustificazione per l’espansione territoriale e l’affermazione dell’egemonia americana.
Sin dal XIX secolo, questo principio è stato interpretato sia come una misura difensiva, sia come un’arma per garantire gli interessi statunitensi. Sotto la presidenza di James K. Polk, la dottrina venne invocata per annettere il Texas e giustificare la guerra con il Messico, che portò la California e gran parte del sud-ovest sotto il controllo americano. Più tardi, venne usata per sostenere acquisizioni territoriali come l’Alaska e per intervenire in questioni internazionali, come la disputa tra Venezuela e Guiana Britannica negli anni 1890. Da strumento di protezione dell’emisfero occidentale, divenne una dichiarazione implicita di supremazia statunitense.
Le ambizioni di Trump, secondo l’analista esperto di Usa Roberto Vivaldelli si inseriscono in questa tradizione, ma con un obiettivo rinnovato: contrastare il potere economico e politico di rivali contemporanei come Cina e Russia. L’ex collaboratore di The Donald George Papadopoulos ha descritto la visione del tycoon come centrata sulla sicurezza e l’influenza strategica nell’intero emisfero occidentale, ampliata idealmente
fino alla Groenlandia. Per Trump, il controllo su questa vasta regione rappresenta il pilastro per mantenere la leadership globale degli Stati Uniti. La sua politica privilegia un uso assertivo della forza geopolitica e la difesa degli interessi nazionali rispetto a un coinvolgimento militare prolungato in aree lontane, una critica implicita alle “guerre infinite” che hanno caratterizzato le amministrazioni precedenti.
Tuttavia, questa prospettiva imperiale rischia di avere conseguenze ben oltre i confini degli Stati Uniti. Il modello di un’egemonia americana unilaterale si pone in aperto contrasto con l’ordine internazionale basato su regole condivise e sul diritto internazionale. L’idea che una potenza globale possa agire come arbitro unico nelle questioni internazionali alimenta tensioni e rivalità con altre nazioni, soprattutto quelle emergenti, che percepiscono questo approccio come una minaccia alla loro sovranità.
L’insistenza sulla proiezione di forza e sull’autonomia decisionale degli Stati Uniti mina il fragile equilibrio di cooperazione instaurato nel dopoguerra, basato su istituzioni multilaterali come le Nazioni Unite. Questo atteggiamento rischia non solo di isolare Washington dal consenso globale, ma anche di destabilizzare le relazioni internazionali, rendendo più probabile l’escalation di conflitti regionali e globali. In un mondo sempre più interconnesso, il mantenimento dell’ordine globale richiede un equilibrio tra il perseguimento degli interessi nazionali e il rispetto delle regole comuni, un equilibrio che, se ignorato, può compromettere la stabilità internazionale e alimentare un disordine sempre più profondo.