Il Trump-bis è arrivato e l’economia Usa e globale si preparano a capire cosa questo comporterà. In un voto contraddistinto dalla grande polarizzazione ideologica e valoriale tra il Partito Repubblicano e il Partito Democratico di Kamala Harris, Trump ha vinto puntando attivamente sui temi economici. Sono stati lo scontento per l’alta inflazione, l’insicurezza e la volontà di maggiori tutele contro una concorrenza straniera ritenuta sempre più dinamica a spingere, oggi come nel 2016, The Donald verso la Casa Bianca. Lo dicevano i sondaggi della vigilia, che dimostravano come l’economia sarebbe stata il fattore-chiave nelle elezioni. Lo confermano, col senno di poi, le reazioni di investitori e osservatori.

I piani economici della Casa Bianca trumpiana mirano a sdoganare un’agenda di crescita focalizzata sui dati “macro” senza guardare con attenzione al tema della redistribuzione della ricchezza creata. Essenzialmente, dovessimo riassumere in pochi concetti le priorità economiche di The Donald potremmo parlare dell’agenda delle

“tre T”: tasse, innanzitutto, da tenere basse e tagliare, alle imprese e ai redditi superiori soprattutto; tariffe, da usare come leva contro le produzioni straniere, da daziare se competitive contro l’economia americana; trivelle, ovvero totale rinnegamento dell’agenda green di Joe Biden in nome del rilancio massiccio della produzione di gas e petrolio.

Il “Make America Great Again” trumpiano deve tenere assieme due sfide potenzialmente contraddittorie: mantenere la promessa di risollevare la classe media e al tempo stesso pagare la cambiale ai miliardari che hanno sostenuto la sua campagna elettorale, a partire da magnati come Elon Musk e il primo donatore, Timothy Mellon, che ha donato ai conservatori 150 milioni di dollari. Trump è inoltre il presidente che rappresenta la rivolta elettorale contro la globalizzazione, per il politologo Aldo Giannuli beneficiando elettoralmente del “fallimento dell’ambizione dei democratici Usa di sviluppare un processo di modernizzazione neoliberista e globalista al tempo stesso”. Ma al tempo stesso vede i suoi supporter abbondare tra i vincitori della globalizzazione, l’élite finanziaria e tecnologica dei Musk, dei Mellon e dei Peter Thiel.

Trump sostiene che le sue riforme spingeranno in alto la crescita americana e rivendica i risultati del suo primo mandato. Come ha ricordato il Guardian, effettivamente, “nella prima era Trump l’economia statunitense è cresciuta fortemente, l’inflazione è stata in media di circa il 2%, sono stati creati 6,7 milioni di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è sceso al 3,5%. Poi, nel quarto anno della sua presidenza, l’economia è stata colpita dalla pandemia di Covid 19. I lockdown hanno fatto sì che 20 milioni di americani perdessero il lavoro e il tasso di disoccupazione è salito al 15%. Una profonda recessione nel 2020 ha abbassato il tasso di crescita medio al 2,3% durante il primo mandato di Trump”. Ma anche con Joe Biden gli Usa sono volati e tra i Paesi occidentali nel 2024 solo la Spagna registrerà un tasso di crescita più alto. Il vero nodo non è tanto la capacità dell’America di creare ricchezza, ma quella di restituirla alle sue periferie più

fragili. Su questa promessa Trump ha costruito le sue fortune elettorali. Ma proprio rispettare la promessa sarà la parte più dura del suo mandato.