Donald Trump o Kamala Harris? Mentre gli Stati Uniti si avviano, il prossimo 5 novembre, a scegliere il loro 47esimo presidente molte discussioni si spendono sugli impatti politici ed economici della vittoria dell’uno e dell’altro candidato. In quest’ottica, guardata dal fronte europeo, nel quadro di Paesi ad alta vocazione esportatrice e con una prioritaria spinta sulla conquista di mercati esteri, su molti temi la divergenza tra l’ex presidente repubblicano e la candidata democratica, nonché vice dell’uscente Joe Biden, è in primo luogo retorica. Trump viene presentato come maggiormente attento a dinamiche protezioniste, come dazi e tariffe, mentre Harris intende rilanciare i piani di investimento interni dell’amministrazione di cui ha fatto parte. Per entrambi la retorica “America First” è, nei fatti, rispettata.
Gli Usa cercheranno sempre più di drenare investimenti strategici e attività produttive per spingerne l’insediamento nel territorio americano tramite i processi di reshoring industriale e in quest’ottica sarà sempre da valutare il posizionamento relativo dell’Europa rispetto all’America sul fronte delle catene del valore nei settori critici, dai semiconduttori all’alta tecnologia. Ma al cambiare delle due amministrazioni passate, Donald Trump e Joe Biden, durante nei quali l’introversione americana sui settori strategici si è palesata, la spinta americana a una nuova leadership sull’Occidente nei settori critici ha alimentato, piuttosto che frenare, l’esposizione materiale verso la
fornitura europea. Il valore dell’export europeo di beni industriali verso gli Usa era di 400 miliardi di dollari nel 2016, anno della prima elezione di Trump, è salito a 495, aumentando di quasi il 25%, nella prima era di The Donald alla Casa Bianca, è corso a 522 miliardi nel 2022 dopo lo stop pandemico e nella fase finale del mandato di Biden ha toccato nuovi picchi. Sarà doveroso capire se l’Ue saprà restare negli alti valori della catena di produzione nei settori che contraddistinguono il perno della relazione commerciale, dal farmaceutico alle infrastrutture. Dove l’America è destinata invece a esercitare un ruolo di condizionamento è nel mercato energetico. E questo su basi differenti al mutare di amministrazione, data la diversa sensibilità di Trump e Harris.
Come ha scritto World Energy, la rivista edita da Eni, “un’amministrazione democratica probabilmente si concentrerebbe sull’accelerazione delle autorizzazioni per i progetti di energie rinnovabili (“permitting reform”) e sull’introduzione di meccanismi di adeguamento del carbonio alle frontiere (carbon border adjustment mechanism), uno strumento politico che sta guadagnando sempre più consenso bipartisan al Congresso (sebbene rimanga incerto se sarà accompagnato da una struttura di prezzi del carbonio)”. Tutto questo amplierebbe il drenaggio di risorse dall’Europa e dalle sue imprese tramite i sussidi dell’Inflation Reduction Act. Trump, invece, “sostiene che il suo obiettivo è ristabilire la “dominanza energetica” degli Stati Uniti, garantendo che il Paese abbia l’energia e l’elettricità più economiche al mondo. È probabile che enfatizzerà un approccio di deregulation, aumenterà le perforazioni petrolifere su terreni pubblici, offrirà agevolazioni fiscali ai produttori di petrolio, gas e carbone e accelererà l’approvazione di gasdotti”. Qui l’Europa è vista come un mercato di export ancora più rilevante. America First, con diverse accezioni, anche in questo ambito.