Sarà l’economia il vero fattore decisivo nelle elezioni presidenziali americane tra Donald Trump e Kamala Harris? Sempre più indizi, a partire dalla spinta dei candidati sui temi che hanno a che vedere con salari, investimenti e occupazione, invitano a pensarlo. Primo fra tutti il fatto che l’elezione si deciderà in una manciata di Stati, decisivi per assegnare i Grandi Elettori che non sono in bilico tra il 45esimo presidente e l’attuale vicepresidente, in cui le grandi dinamiche dell’economia la fanno da padrona.
Si pensi, ad esempio, agli Stati della cosiddetta “Rust Belt”, l’area dei Grandi Laghi dove insistono Stati a storica vocazione industriale come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, tutti in bilico tra Partito Repubblicano e Partito Democratico. Trump ha vinto questi Stati nel 2016 promettendo protezionismo, ritorno della manifattura tradizionale (acciaio e auto soprattutto), difesa dei posti di lavoro; Joe Biden li ha riconquistati nel 2020 mettendo una politica industriale orientata allo sviluppo green, delle filiere tecnologiche. In entrambi i casi gli Stati in questione sono stati decisivi per la scelta del nuovo inquilino della Casa Bianca.
E nel complesso sistema elettorale americano fondato sui grandi elettori gli Stati-operai della Rust Belt, la “cintura della ruggine”, lo saranno, assieme a pochi altri Stati in bilico (Nord Carolina, Georgia, Arizona) anche nella tornata del 5 novembre. Negli Stati in questione Trump e Harris fanno campagna. The Donald spinge per rilanciare la sua agenda fatta di tagli fiscali, riduzione delle aliquote, protezionismo verso i beni importati dalla Cina e da altri Paesi concorrenti. Per Harris la via maestra è proseguire sul sentiero dell’Inflation Reduction Act, piano di investimenti promosso da Biden per sussidiare le filiere cleantech e della transizione energetica negli Stati de-industrializzati. La candidata democratica ha, al contempo, concordato con Trump e Biden, in una rara dimostrazione d’unità nazionale, l’opposizione all’acquisizione di US Steel, storico colosso dell’acciaio di Pittsburgh (Pennsylvania), da parte della giapponese Nippon Steel. Il motivo? Il timore che la perdita di posti di lavoro nel settore possa manifestarsi e condizionare elettoralmente la corsa dei dem, in una regione dove ogni voto conta.