Il 20 maggio a Taiwan si è insediato il neo-presidente William Lai, del Partito Democratico Progressista fortemente pro-indipendenza e autonomista dalla Cina. Il suo ingresso in carica ha visto l’emergere di un braccio di ferro nello Stretto che separa l’isola di Formosa dalla Cina continentale, con esercitazioni militari di Pechino per mostrare bandiera di fronte a quella che è chiamata la “provincia ribelle”.
Si è tornato a discutere di una possibilità di escalation militare a Taiwan. Un recente rapporto di Bloomberg Economics ha stimato che un potenziale conflitto a Taiwan,
coinvolgendo Stati Uniti, Cina e gran parte dell’Occidente, potrebbe costare 10 trilioni di dollari, equivalenti a circa il 10% del PIL globale. Un evento di tale portata avrebbe conseguenze devastanti, simili a qualsiasi escalation tra le due parti dello Stretto di Taiwan.
Ad oggi però non si vedono avvisaglie di un’escalation del genere, principalmente per l’impreparazione militare cinese a scenari conflittuali. E alla scarsa volontà di Taiwan di trasformare in postura assertiva, di contenimento della Cina, un indipendentismo usato soprattutto per valorizzare un ruolo globale che resta principalmente economico. Con un Pil di 841 miliardi di dollari, Taiwan è tra le prime venti economie della Terra, davanti anche a Stati come Svizzera e Arabia Saudita. Come noto, la Repubblica di Cina, nome ufficiale di Taiwan, è un fulcro essenziale nella produzione di semiconduttori, e nei vari settori controlla tra il 40% e il 65% alla produzione globale di componenti e manufatti di alto valore aggiunto e complessità tecnologica. Questa fetta
di mercato raggiunge l’85% se si considerano i semiconduttori più avanzati, un settore dominato dal colosso taiwanese Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC). Un conflitto in questa regione potrebbe quindi compromettere la disponibilità del principale fornitore mondiale di chip.
TSMC sta investendo negli Usa per promuovere un avvicinamento strategico tra Taipei e Washington anche nelle catene del valore. Taiwan nel suo nuovo corso sostiene vecchie sfide: quella di ricercare un senso nel mondo; quella di condividere rapporti floridi in campo economico con la Cina (può apparire paradossale, ma è così) con una postura dinamica in campo politico. Quella, infine, di non esser risucchiato nel gorgo della competizione globale. Ha ben riassunto il tema il giornalista esperto di questioni cinesi e asiatiche Federico Giuliani, riassumendo le sfide della nuova presidenza: “Lai, durante il suo mandato, cercherà in tutti i modi di ritagliare per l’isola un posto nel mondo che non infastidisca Pechino, e che non sia troppo lontano dall’”ombrello” degli Stati Uniti”.
L’esser diventata “isola dei chip” ha reso Taiwan importante per l’economia di un Paese che resta dinamico, ha scritto Giuliani. Ricordando che nel nuovo mandato presidenziale “la leadership taiwanese proverà a puntare sul turismo, con l’auspicio di rendere Taipei una meta appetitosa per i viaggiatori occidentali, spingerà sulla tradizione culinaria locale – uno dei pochi strumenti di soft power sui quali poter fare leva
– e continuerà ad investire nel settore dei semiconduttori giocando di sponda con gli altri player globali”. Sperando nella tranquillità di un contesto geopolitico oggi mutevole per far fronte a nuove e vecchie minacce alla propria sicurezza.